La costellazione Netrebko è tornata a splendere sull’Arena di Verona in occasione di tre recite di Turandot, nelle quali il soprano russo ha sostenuto, con esiti nulla meno che sublimi, l’impervio ruolo del titolo per la prima volta in Italia e in Europa. Le scenografie digitali proiettate su ledwall si sono avvalse delle immagini dei beni artistici custoditi al Museo d’arte cinese ed etnografico di Parma per ricreare una Pekino fiabesca. Un’ambientazione in continuo mutamento, assai lineare nella concezione e appagante per lo sguardo, con i paesaggi rivestiti da una bianca coltre invernale che progressivamente si è sciolta lasciando sbocciare i fiori primaverili. Sotto le mura del palazzo imperiale, una moltitudine di guerrieri e di popolani, ministri e ancelle tutti con mascherina, in un vivace e colorato brulichio.

Potremmo evidenziare le doti che fanno di Anna Netrebko uno dei migliori soprani al mondo, dei nostri giorni e, non pare azzardato affermarlo, di tutti i tempi. Potremmo dilungarci sull’eccellenza tecnica e sul più che perfetto uso della stessa, oppure potremmo focalizzarci sulla dizione ineccepibile, sul fraseggio espressivo, sugli squilli svettanti, sull’eleganza della linea stilistica, sull’osmosi con cui fa proprio ogni personaggio. Vogliamo invece in questa circostanza soffermarci sulla luminosità della voce, sul suono emesso come un fascio di luce mutevole, che si è fatto trasparente oppure materico inglobando in sospensione del pulviscolo dorato, o ancora che si è tinto di colori miscelati in innumerevoli nuances, con propensione alle tinte scure, ma pur sempre rilucenti, nei registri bassi. Una luminosità esordita nell’opalescenza perlacea della Principessa di gelo: un “gelo” autoritario dovuto al rango, sotto al quale covava calore umano pronto a emergere, derivante dall’essere Turandot non solo la figlia dell’imperatore ma una donna, con il proprio carico di sentimenti.  

A risvegliare questi ultimi, a rubarle un bacio che, in un colpo di fulmine, ha fatto cadere le protezioni interiori di Turandot e sbocciare l’amore, il compagno sulla scena e nella vita Yusif Eyvazov, Calaf dal fascino esotico e misterioso, ottimamente calato nella parte. L’azero, dalla linea di canto sempre più affinata, al di là di taluni tempi lenti sui quali ha sapientemente poggiato la voce, ha brillato per il fraseggio fluido e per l’interpretazione giocata su dinamiche ben dosate, che hanno lasciato spazio ai fulgidi slanci tenorili, soprattutto in “Nessun dorma”, con un acuto tenuto per un tempo davvero lungo, e saldamente.

Eccellente l’altro soprano, la spagnola Ruth Iniesta, schiava Liù dal carattere dolce ma non arreso, fermamente devota al suo vegliardo signore, dal timbro suadente e levigato, capace di toccare i cuori in quel “Tu che di gel sei cinta” che è stato il culmine di un percorso tarato sull’espressività.

Incisivo e di grande dignità Timur di Riccardo Fassi. Votate all’esotismo le tre maschere Ping Pong Pang di Alexey Lavrov, Francesco Pittari, Marcello Nardis. Completavano il cast l’Imperatore d’eccezione Carlo Bosi, il Mandarino Viktor Shevchenko e Riccardo Rados Principe di Persia. Ha ottimamente figurato il Coro preparato da Vito Lombardi, con una menzione speciale alle voci bianche A.d’A.Mus guidate da Marco Tonini.

Sul podio, Jader Bignamini ha ben gestito la situazione che, lo ricordiamo, prevede il distanziamento nelle file dell’orchestra areniana e i due cori collocati fuori scena, uno sulle gradinate di sinistra, mentre le voci bianche erano sulle gradinate di destra. Il direttore ha di conseguenza costruito un edificio sonoro dall’architettura composita, attenta alle esigenze della compagnia di canto ma anche dell’autore, tra echi orientali, urgenze drammatiche e aperture liriche collocate nell’ambito di un discorso equilibrato.
Turandot replica, con diversi cast, fino al 3 settembre.


Recensione di Maria Luisa Abate
Visto all’Arena di Verona il 1 agosto 2021
Contributi fotografici: Foto Ennevi



IN RICORDO DI MARIA CALLAS
Simbolico passaggio di testimone dalla Diva dei giorni nostri alla Divina del passato. Nell’arcovolo numero uno, il 1 agosto 2021, era esposta La sacra famiglia, un dipinto settecentesco di Giambettino Cignaroli, nella sua custodia rossa “da viaggio”. L’opera, di piccole dimensioni, fu regalata a Maria Callas da Giovanni Battista Meneghini il 1 agosto 1947, il giorno precedente al debutto del soprano sul palcoscenico dell’Arena di Verona. Alle spalle della teca contenente il dipinto, alcune foto d’epoca ritraevano la Callas con accanto l’oggetto devozionale, che portò con sé nei camerini di tutti i teatri del mondo. E che ora si trova custodito alla Casa Museo Paolo e Carolina Zani, con sede a Cellatica in provincia di Brescia, che l’ha concessa in prestito per questa sola serata.

M.L.A.